La solitudine nelle festività: quando l’obbligo di stare bene ci fa sentire più soli
La solitudine nelle feste: quando l’obbligo di stare bene ci fa sentire più soli
Ci sono momenti dell’anno in cui la solitudine fa più rumore. Non perché sia più grande, ma perché non dovrebbe esserci.
Le festività hanno questa strana caratteristica: non sono solo giorni sul calendario, sono luoghi simbolici. Luoghi in cui dovremmo sentirci uniti, sereni, grati, felici. Luoghi in cui “si dovrebbe stare bene”. E proprio per questo, quando non accade, il dolore raddoppia.
Durante l’anno possiamo concederci di essere stanchi, distratti, distanti.
Durante le feste no.
Durante le feste, se stai male, senti anche di sbagliare.
Ed è lì che la solitudine smette di essere solo un’emozione e diventa una colpa silenziosa.
L’aspettativa: il vero amplificatore della solitudine
La solitudine delle feste non nasce sempre dall’assenza di persone.
Spesso nasce dall’eccesso di aspettative.
– Dovrei essere felice.
– Dovrei sentirmi grata.
– Dovrei godermi questo momento.
– Dovrei sentire calore, vicinanza, amore.
Ma le emozioni non obbediscono ai calendari.
E quando quello che proviamo non coincide con quello che “dovremmo” provare, succede qualcosa di molto sottile: ci sentiamo sbagliati.
La solitudine allora non è solo “sono sola”, ma diventa:
“Sono sola mentre dovrei sentirmi piena.”
Ed è una forma di isolamento ancora più profonda, perché non si può dire ad alta voce.
Quando lo spazio si riduce e il non detto esplode
Le festività accorciano le distanze.
Fisiche, emotive, temporali.
Si sta più tempo insieme.
Nello stesso spazio.
Con meno vie di fuga.
Ed è lì che iniziano i battibecchi.
Quelli che sembrano sciocchi, banali, inutili.
– “Non hai apparecchiato bene.”
– “Hai lasciato tutto in disordine.”
– “Possibile che devo fare sempre tutto io?”
– “Non pensi mai a niente.”
Ma quasi mai si sta parlando davvero di piatti, tavole o bicchieri.
Quello che sta cercando di uscire è qualcos’altro.
👉 “Non mi sento aiutata.”
👉 “Non mi sento vista.”
👉 “Mi sento sola anche qui.”
👉 “Avrei bisogno di sentire che non sono l’unica a reggere tutto.”
Il problema è che il dolore emotivo, quando non trova parole, si traveste da irritazione. E allora si litiga per il fuori, mentre dentro si soffre per il non accompagnamento.
La solitudine “in compagnia”: la più difficile da riconoscere
C’è una solitudine che fa particolarmente male: quella che si prova accanto a qualcuno.
Essere soli in una stanza vuota può essere triste.
Essere soli in una stanza piena può essere devastante.
Succede quando:
non ci si sente ascoltati,
non ci si sente scelti,
non ci si sente importanti per nessuno, anche se nessuno manca fisicamente.
Durante le feste questa solitudine emerge con più forza perché tutto intorno parla di unione, famiglia, condivisione. E il contrasto diventa crudele.
La solitudine: uno sguardo clinico e teorico
Dal punto di vista psicologico, la solitudine non coincide con l’isolamento sociale. Questa distinzione è fondamentale.
La letteratura clinica parla di solitudine soggettiva (loneliness), ovvero della discrepanza tra le relazioni che una persona ha e quelle che desidererebbe avere (Perlman & Peplau).
Si può essere circondati da persone e sentirsi profondamente soli. E si può essere fisicamente soli senza soffrirne.
Nelle festività questa discrepanza aumenta: le relazioni “dovrebbero” essere più calde, più presenti, più significative. Quando non lo sono, il senso di mancanza diventa più acuto.
John Bowlby: solitudine e attaccamento
John Bowlby, padre della teoria dell’attaccamento, ci offre una chiave di lettura preziosa.
Per Bowlby la sofferenza emotiva nasce quando il bisogno di vicinanza e sicurezza non trova risposta.
Le festività riattivano i sistemi di attaccamento:
il bisogno di essere accolti,
il desiderio di sentirsi “a casa” non solo fisicamente ma emotivamente,
l’aspettativa di una base sicura.
Quando questa base non viene percepita, emergono:
irritabilità,
tristezza,
rabbia,
senso di esclusione.
Il conflitto apparente (per le piccole cose) è spesso l’espressione di un attaccamento che chiede rassicurazione.
Winnicott e la solitudine essenziale
Donald Winnicott introduce un concetto chiave: la capacità di stare soli in presenza di qualcuno.
Secondo Winnicott, la vera maturità emotiva nasce quando una persona può sentirsi sé stessa anche accanto all’altro, senza dover performare, compiacere o difendersi. Quando questa capacità non è stata sufficientemente costruita, la vicinanza forzata delle festività può diventare destabilizzante:
ci si sente invasi,
giudicati,
non riconosciuti.
La solitudine allora non è solo mancanza dell’altro, ma mancanza di uno spazio interno sicuro.
Irvin Yalom: la solitudine esistenziale
Irvin Yalom distingue tra solitudine interpersonale e solitudine esistenziale. Quest’ultima riguarda una verità profonda: per quanto possiamo amare ed essere amati, ci sono parti di noi che restano irriducibilmente sole.
Le festività, con il loro carico simbolico, mettono spesso in crisi l’illusione che l’altro possa colmare tutto. E quando questa illusione cade, emerge una sensazione di vuoto che può spaventare.
Secondo Yalom, il problema non è la solitudine in sé, ma il tentativo di fuggirla invece di riconoscerla.
La prospettiva neurobiologica: il bisogno di co-regolazione
Dal punto di vista neurobiologico (Porges, Teoria Polivagale), l’essere umano è un organismo sociale che si regola attraverso la co-regolazione.
Nelle festività:
il sistema nervoso è più sollecitato,
le aspettative emotive sono alte,
la mancanza di sintonizzazione diventa più evidente.
Quando non ci sentiamo visti, ascoltati, accolti, il sistema nervoso entra facilmente in:
iperattivazione (rabbia, irritabilità),
oppure ipoattivazione (ritiro, tristezza, chiusura).
Il battibecco, il silenzio, la fuga emotiva sono quindi strategie di sopravvivenza, non difetti caratteriali.
Solitudine, genere e socializzazione emotiva
La clinica mostra come uomini e donne siano spesso socializzati in modo diverso rispetto alla solitudine.
Le donne tendono a internalizzare la solitudine, vivendola come fallimento relazionale o personale.
Gli uomini tendono a evitarla o mascherarla, attraverso il fare, il silenzio o il ritiro.
Queste differenze non sono innate, ma apprese.
E nelle festività, quando l’intimità è più richiesta, queste modalità divergenti possono amplificare incomprensioni e conflitti.
Una rilettura clinica del conflitto festivo
In terapia emerge spesso una verità semplice e potente:
Molti conflitti non parlano di ciò di cui sembrano parlare.
Parlano di:
bisogno di riconoscimento,
bisogno di sicurezza,
bisogno di sentire che l’altro “è con me”.
Se leggiamo le festività con questo sguardo, smettiamo di patologizzare la solitudine e iniziamo a considerarla un messaggio clinicamente sensato.
Uomini e donne: due modi diversi di vivere la solitudine
La solitudine non ha lo stesso volto per tutti.
La solitudine delle donne
Spesso è una solitudine piena di presenza.
Le donne sono circondate da persone, richieste, bisogni.
Ma si sentono sole perché: fanno tanto, tengono insieme tanto, pensano a tutti. E quasi mai si sentono sostenute allo stesso modo.
La loro solitudine è fatta di frasi non dette:
“Possibile che devo sempre essere io quella forte?”
“Chi si accorge di me?”
“Se mi fermo, chi mi sostiene?”
Nelle feste questa solitudine aumenta perché il carico organizzativo ed emotivo cresce, mentre il riconoscimento spesso no.
La solitudine degli uomini
Spesso è una solitudine silenziosa.
Molti uomini vivono la solitudine come:
difficoltà a nominare ciò che provano,
incapacità (appresa) di chiedere,
paura di essere un peso emotivo.
La loro solitudine è meno espressa, ma non meno intensa.
È fatta di chiusura, di ritiro, di frasi brevi, di distacco apparente.
Nelle feste, quando l’emotività è più richiesta, questa difficoltà diventa ancora più evidente.
E spesso viene letta come freddezza, quando in realtà è disorientamento emotivo.
Quando litighiamo, spesso stiamo chiedendo vicinanza
Molti conflitti delle festività non sono attacchi. Sono richieste d’amore mal formulate.
Dietro a un rimprovero può esserci:
- il bisogno di essere aiutati,
- il bisogno di essere visti,
- il bisogno di non sentirsi soli nella fatica.
Ma se nessuno traduce quel linguaggio, la distanza aumenta.
Forse il vero lavoro delle feste è ridurre le aspettative, non le emozioni
Forse non dovremmo chiederci:
“Come faccio a stare bene a Natale?”
Ma:
👉 “Come posso essere più vera con quello che sento?”
👉 “Come posso ascoltare ciò che emerge, invece di zittirlo?”
👉 “Come posso riconoscere la mia solitudine senza giudicarla?”
La solitudine non è un fallimento.
È un segnale.
E a volte, proprio nelle feste, ci sta dicendo qualcosa di importante:
che abbiamo bisogno di più verità e meno copioni.
Un augurio diverso: che queste festività non siano perfette. Ma sincere.
Che non ti chiedano di essere felice a tutti i costi, ma di essere presente a te stessa.
Perché la solitudine non si cura riempiendo il tempo o le tavole,
ma creando spazi in cui ci si può finalmente sentire visti.
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